Nei licenziamenti collettivi la Corte Ue dichiara legittimo il mancato reintegro del lavoratore assunto con Jobs Act.

Avv. Claudia Scarpellini – Avv. Luca Viola

La Corte Europea, con sentenza del 17 marzo 2021 (C-652/19) ha, di fatto, riconosciuto la conformità con il diritto comunitario del D.Lgs. n. 23/2015 il quale, attuando il c.d. “Jobs Act”, ha introdotto il nuovo contratto di lavoro a tutele crescenti: non è discriminatorio quanto stabilito dall’art. 10 del D.L.vo n. 23/2015 che, in caso di violazione dei criteri di scelta a seguito della procedura collettiva di riduzione di personale, prevede un indennità risarcitoria nei confronti dei lavoratori assunti a partire dal 7 marzo 2015, in luogo alla reintegra del posto di lavoro prevista per i lavoratori assunti prima di tale data.

Il fatto: Nel gennaio 2017, la Consulmarketing s.p.a. ha avviato una procedura di licenziamento collettivo che ha interessato 350 lavoratori. I dipendenti hanno presentato ricorso al Tribunale di Milano eccependo la violazione dei criteri posti alla base della decisione datoriale per l’individuazione dei lavoratori da sottoporre alla procedura. Il Tribunale, accertata l’illegittimità del licenziamento collettivo posto in essere dalla società, ha disposto la reintegra di tutti i dipendenti ad eccezione della sig.ra KO. Quest’ultima non ha potuto beneficiare della medesima tutela ed è stata sottoposta al regime sanzionatorio meramente indennitario, ex art. 10 del D.lgs. 23/15, perché la conversione del suo contratto di lavoro a tempo determinato, in contratto a tempo indeterminato, era avvenuto in data successiva al 7 marzo 2015, data di entrata in vigore del Jobs Act.

Il Tribunale di Milano, rilevata la coesistenza di due regimi diversi con riferimento a tale tipologia di licenziamento, ha ritenuto opportuno sottoporre al vaglio della Corte di Giustizia Europea la conformità del nuovo regime meramente indennitario con i principi di parità di trattamento, di non discriminazione e con la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione (Ordinanza del 5/08/2019).

Le questioni pregiudiziali sollevate: il giudice del rinvio si è chiesto se tale situazione fosse compatibile con la direttiva 98/59/CE (sui licenziamenti collettivi) e con la clausola 4 dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato (18 marzo 1990), letti alla luce degli artt. 20 e 30 della Carta sociale europea.

In primo luogo, il giudice ha rilevato che l’indennità invocata dalla ricorrente non costituirebbe compensazione adeguata per un licenziamento collettivo illegittimo ai sensi dell’art. 30 della Carta che al contrario definisce “adeguata compensazione” quella che include: a) il rimborso delle perdite economiche subite tra il licenziamento e la decisione del ricorso; 2) la possibilità di reintegrazione; 3) una sufficiente compensazione economica.

In secondo luogo, il Tribunale contesta una disparità di trattamento tra, da un lato, la ricorrente, lavoratrice entrata in servizio prima del 7 marzo 2015 nell’ambito di un contratto a tempo determinato e convertito, dopo tale data, in indeterminato e, dall’altro, tutti gli altri dipendenti licenziati: la conversione di un contratto a tempo determinato in contratto a tempo indeterminato sarebbe assimilata, ai fini della fissazione del regime di tutela, ad una nuova assunzione.

La decisione della Corte Ue: la Corte di Giustizia ha ritenuta giustificata, in via eccezionale, la differenza di trattamento tra le categorie di lavoratori.

I giudici europei hanno chiarito che una normativa nazionale che prevede l’applicazione concorrente, nell’ambito della stessa e unica procedura di licenziamento collettivo, di due regimi di tutela dei lavoratori a tempo indeterminato in caso di licenziamento illegittimo non rientra nell’ambito di applicazione della direttiva 98/59/CE. La direttiva infatti non mira a istituire un meccanismo di compensazione economico generale a livello dell’Unione in caso di predita del lavoro ma solo la procedura da seguire in caso di licenziamento collettivo.

La Corte Ue ha poi sottolineato che la differenza di trattamento applicata alla ricorrente non è dovuta ai criteri del periodo di anzianità per la determinazione della tutela in caso di licenziamento collettivo ai sensi della clausola 4, punto 1 dell’accordo quadro ma  risulta dal regime transitorio istituito dall’art. 1 paragrafo 2 del D.Lgs. 23/2015. La clausola predetta prevede infatti che i criteri di anzianità di servizio relativi a particolari condizioni di lavoro devono essere gli stessi sia per i lavoratori a tempo determinato sia per quelli a tempo indeterminato, eccetto quando criteri diversi in materia di periodo di anzianità siano giustificati da motivazioni oggettive.

La Corte conclude affermando che la disparità di trattamento non viola il principio di non discriminazione e che il trattamento meno favorevole di un lavoratore, nella situazione della ricorrente, è giustificato dall’obbiettivo di politica sociale perseguito dal governo italiano, con D.lgs. 23/2015, consistente nell’incentivare i datori di lavoro ad assumere lavoratori a tempo indeterminato.

Avv. Claudia Scarpellini – Avv. Luca Viola